Michel Dufour
"L'ingengere ingegnoso"
Pubblichiamo per la prima volta in italiano l'articolo di Laurent Charpentier scritto per la rivista Voiles et Voilers, (n. 390, agosto 2003) che ripercorre la storia dell'ingegnere Michel Dufour, papà dei nostri cari Arpege e fondatore dell'omonimo cantiere.Tanto è famoso il suo nome nel campo dello yachting internazionale, tanto poco è conosciuta la sua vita e le sue vicende. Vicende che mettere a disposizione dei tanti estimatori delle sue barche.
L’esile giovane che scende dal treno proveniente da Parigi è un figlio di buona famiglia, non un figlio di papà. Prima di arrivare qui, a La Rochelle, ha svolto il servizio militare e, sopratutto, ha passato alcuni mesi in Algeria. Perchè siamo nel 1957 e laggiù c’è la guerra. Anche se non si combatte, questo tipo di esperienze fa perdere qualche illusione sulla natura umana.
Michel Dufour, 1 metro e 74, occhi grigi, capelli castani, è un ragazzo del Nord, il maggiore di tre fratelli. Suo padre? Un uomo di polso, tutto dirittura autoritaria e morale cristiana. E’ a capo di un’azienda di 80 persone, specializzata in grandi apparecchiature elettriche. Un’esigenza di successo sociale per i suoi figli. Per tutti loro studi in una scuola cattolica, niente paghetta. L’educazione è rigida, basata sul dovere, non sul dialogo o la convivialità.
Negli anni ‘50 a Lille non si scherza con i vecchi princìpi. Quando Michel, con in tasca il suo diploma di Studi Industriali Superiori, tenta di lavorare nella ditta di famiglia, i rapporti si guastano rapidamente. “Aveva carattere ed idee non conformiste, troppo d’avanguardia per nostro padre” ricorda sua sorella Brigitte. Un’inserzione letta per caso lo porta a più di 600 chilometri da casa. Ed eccolo presso Brissonneau et Lotz, produttori di materiale ferroviario con sede a Aytré, vicino a La Rochelle.
Nel giro di qualche mese, il giovane ingegnere assegnato al reparto Metodi scopre la vela e si compra un “Vaurien”. In quel periodo, lo scalo di messa a mare delle derive è lo stesso del cantiere Hervé. Logico che un giorno la strada di Michel Dufour s’incroci con quella del titolare, Fernand Hervé, detto “lo zio”, una personalità del luogo. “Con lui ho imparato tutto...” confesserà Michel Dufour al nostro collaboratore Jean Dousset. I due amici fanno il Fastnet e l’Admiral’s Cup a bordo di Éloise.
Curioso, cordiale, Michel Dufour impara presto a conoscere l’ambiente della vela de La Rochelle. Questo giovane energico, a cui piacciono le regole ed i meccanismi della regata, si appassiona alla barca a vela in quanto oggetto di studio, senza provare alcun interesse per le abitudini mondane degli armatori.
L’ingegnere non è tuttavia il tipo da andare in cerca d’identità in navigazioni d’altura. Il mare non lo affascina. L’uomo presto proprietario di un “Corsaire” [Corsaro, ndt], poi di un “Requin” [Squalo, ndt]- è più affine al rigore del teorico della vela Manfred Curry (che ha letto da adolescente) che non al febbrile lirismo di Alain Gerbault. In fabbrica, Michel Dufour prende la direzione del settore poliestere/vetroresina. Questo nuovo materiale viene utilizzato per la parte anteriore delle locomotive, per le porte o l’impianto di ventilazione... E sarebbe ideale per la barca a vela alla quale pensa da tempo.
“Disegnala tu allora, la tua barca a vela!” lo provoca un giorno Paulette, la moglie di Fernand Hervé. È il colpo di fulmine. “Alle riunioni del mattino in officina Michel non ascoltava più, disegnava a matita delle barche” ricorda Jean Jacquemin, un altro amico ingegnere alla Brissonneau et Lotz. Fa la stessa cosa sulle tovaglie di carta del ristorante “da André”, dove è di casa. Una sera, si presenta dal suo compagno Francis Deschamps con della plastilina. “Aveva una sua idea. Lavorando con la plastilina abbiamo trovato la forma da dare alla tuga della sua futura barca, il Sylphe” [Silfo, ndt]. Per la carena, si affida alla sua esperienza di velista, ai suoi schizzi a matita e alla sua conoscenza delle leggi di idrodinamica.
La direzione della fabbrica di Aytré si rifiuta di lanciarsi in quest’avventura, ma acconsente a lasciar andare James Léger, capo squadra del settore poliestere/vetroresina, trentenne, padre di due figli. “È riuscito a convincermi ad abbandonare un buon posto sicuro per un progetto ipotetico. Non capivo niente di barche, ma mi entusiasmava l’idea di poter creare qualcosa” C’è tutto da fare, a partire dal reperire i soldi.
I suoi risparmi di ingegnere stipendiato sono insufficienti? Michel Dufour li investe in borsa, specula e perde tutto! Vende la macchina e la barca e prende a prestito 60.000 franchi. Il laboratorio sarà un angolo di un magazzino di granaglie, preso in affitto a Saint-Xandre, alla periferia di La Rochelle. Bisognava cacciarne via le galline. Mentre Léger e quattro operai costruiscono le basi e gli stampi, Michel deve timbrare il cartellino in fabbrica, da dove scappa appena possibile per seguire i lavori. “Malgrado tutto, arrivando a La Rochelle, avevo l’impressione di essere il capo, di essere padrone di me stesso, una sorta di super-artigiano!”, dirà vent’anni più tardi a Jean Dousset.
Nell’autunno del 1964, dopo otto mesi di lavoro, il primo “Sylphe” scende in acqua. Viene immediatamente comperato da Dominique Trenteseaux, uno del Nord, come Michel. Questa vendita è un’iniezione d’ossigeno per la squadra dello Stratifié Industriel [stratificato industriale, ndt], il nome della ditta che Michel Dufour ha appena fondato. Si riesce a costruire una seconda imbarcazione da presentare al salone nautico nel gennaio 1965. Non ci sono compratori, ma la barca piace alla stampa. Controstampato, il Sylphe offre finiture eccezionali e viene consegnato pronto per navigare, con tutta la batteria di pentole ed il cavatappi! “Mi diceva: anche nei luoghi nascosti, dove non si può vedere, troverai soltanto acciaio inox” ricorda Bertrand Chéret, all’epoca giornalista ai Cahiers du Yachting.
“Più tardi, quando realizzavo le vele delle sue imbarcazioni, egli voleva solo vero Dacron, quello fatto da Du Pont de Nemours. Questa forza di volontà, questo perfezionismo, questa onestà lo hanno messo talvolta in situazioni difficili.” La barca, che veniva considerata troppo larga per essere veloce, vince tuttavia la Settimana della Rochelle 1965. Un punto di forza in più per Michel Dufour, che parte per un giro di dimostrazione lungo la costa con il suo Sylphe. Tornerà con una dozzina di ordini. Ben presto gli operai dello Stratifié Industriel non avranno più tempo per costruire le carrozzerie delle Sovam, auto da corsa d’una fabbrica di Partenay, ormai oggetti da collezione...
Quando il suo laboratorio dispone soltanto di un angolo di magazzino e della linea telefonica di un vicino, Michel Dufour esprime già, con discutibile franchezza, l’ambizione di diventare il capo del più importante cantiere europeo. E ci riuscirà. Ostinato, combattivo, è un visionario – talvolta imprudente – che della costruzione di barche a vela saprà fare un’industria. Questa ambizione è sostenuta da tenacia e da un’effettiva creatività.
Sui moli de La Rochelle, col suo immancabile completo, che porta anche in navigazione, l’ingegnere ha l’aria di un professor Tournesol. “Alla fine di ogni regata, mentre i regatanti facevano uno spuntino sulle barche, Michel rimaneva sempre serio, preoccupato, con un regolo in mano. Non si divertiva, non dimenticava mai il suo progetto” racconta Françoise Fouré, la sua ex segretaria. Un atteggiamento che sua sorella Brigitte, rimasta nel nord della Francia, commenta: ”quando si appassionava a qualcosa non si risparmiava, andava sino in fondo”. Se l’uomo è un po’ timido, a disagio con le donne, adora invece discutere. A la “Cafétérie”, il locale dei velisti di allora, le discussioni sugli argomenti piu disparati possono prolungarsi sino all’ora di chiusura. Si trasformano in certami oratori. Michel Dufour, appassionato di economia e di politica, assiduo lettore di Le Monde e dell’Economist, vuol rifare il mondo... Farà invece una nuova barca.
Nel 1966, proprio a lato del cantiere riceve i visitatori nel modello in grandezza naturale degli interni della sua prossima barca a vela. È attorno a questi vasti volumi interni, razionalmente disposti e sperimentati, che viene concepito l’Arpège. Estrapolato dallo Sylphe, offre uno dei migliori compromessi dell’epoca nell’eterna battaglia tra comodità e prestazioni. Per mancanza di spazio, James Léger deve tracciare la nuova barca nel salone delle festa di Saint-Xandre.
Viene costruito un prototipo. Michel Dufour pretende di navigarci prima di presentarlo al Salone del 1967. “Una sera di dicembre usciamo in mare insieme...per andare in secca, col riflusso della marea, vicino alla torre Richelieu!”, racconta Bertrand Chéret. “Eccoci dunque incastrati, raggomitolati sotto le vele: l’ingresso della cabina, priva ancora del tambucio, lasciava entrare un vento glaciale da Est... Ci disincagliamo all’una del mattino. E Michel insiste per andare a virare attorno al faro di Chavaux. Siamo rientrati di bolina morti di freddo. Facevo tutto questo per lui, non per scopi professionali. Voleva talmente tanto che tutto andasse bene! La sua energia e il carisma conquistano l’adesione di chiunque s’interessi al suo progetto. E d’un tratto arriva il successo, quello che sopraffa, stimola e insieme preoccupa.
A Parigi l’Arpège viene accolto bene, malgrado un bordo libero allora giudicato eccessivo. La barca viene applaudita in Inghilterra e vince regate un po’ dappertutto. Fine delle riserve nei confronti di una vetroresina così fredda ed impersonale! Da un anno all’altro le vendite triplicano. Dalle 19 barche costruite dallo Stratifié Industriel nel 1965/66 si passa alle 58 nel 1966/67 e poi alle 158 del 1969/70. I locali si rivelano ben presto troppo stretti. I reparti di montaggio si sparpagliano tra la rue des Chantiers e la Ville en Bois. Si assumono a pieno ritmo i migliori operai della regione. Quel che per James Léger era un’avventura si trasforma in un impegno totale. “Lavoro senza sosta per otto anni. Mai un permesso o una vacanza! Quando ci si imbarca in un faccenda simile bisogna andare fino in fondo.”
Competente, concreto, pragmatico è l’alter ego del creatore-ingegnere. L’uno concepisce il prodotto, lo promuove e lo vende, l’altro dirige la produzione e segue i problemi quotidiani. Per Michel Dufour tutto fa brodo. Sviluppa le vendite all’estero e compra la licenza del Soling, barca a chiglia fissa olimpica, nella speranza di lanciarla negli Stati Uniti. Un fiasco: se ne vendono solo 155 esemplari... È in vendita Plastiflex, una fabbrica di gomma che produce in particolare i pneumatici in miniatura dei giocattoli Dynky Toys. Questa acquisizione permetterà in particolare di mettere in piedi la prima catena di montaggio per gli Arpège. In attesa di tempi migliori.
Un aiuto inatteso viene dal Parlamento, che vota la fine della detassazione delle imbarcazioni da diporto. Dal 1°gennaio 1969 si applicherà l’IVA al 13%, che salirà al 16,66% un anno dopo. Prima della data fatidica è un assalto. “ Era incredibile. La gente ci supplicava di fornir loro un Arpège! Ricorda Françoise Fouré. Tra l’estate del 1968 e gennaio 1969 ne vendevamo una quindicina alla settimana, al prezzo di 56,330 Franchi!. Non eravamo in grado di consegnare tutto entro gennaio. Visto che avevamo a magazzino le materie prime, gli Affari Marittimi [Registro Navale, ndt], molto comprensivi, hanno concesso l’immatricolazione a qualche barca ancora nei negli imballaggi...”
A seguito dell’uscita del primo azionista, Michel si rivolge agli amici (tra cui Francis Deschamps e Jean-Claude Sacré) e accetta l’aiuto di suo padre per finanziare questa crescita. È tempo di riorganizzare l’azienda.
Nel gennaio 1969 lo Stratifié Industriel diventa Michel Dufour S.p.A, un ditta più riconoscibile all’estero. Sul versante pubblicitario Dufour non esita a comprare intere pagine a colori sulle riviste specializzate. Acconsente anche a Jean-Yves Terlain di partecipare alla Transpacifica 1969 a bordo di Blue Arpège. Anche se arriva a Tokyo dieci giorni dopo il Pen Duik V di Tabarly, viene avvalorata la reputazione di affidabilità dell’imbarcazione...Blue Arpège riceve inoltre un onore insolito: venduto sul posto, ne verrà fatto un calco e poi prodotto illegalmente!
A La Rochelle James Léger organizza il lavoro destreggiandosi tra i vari cantierini. Nel 1970 la Michel Dufour S.p.A. costruisce oltre 300 barche a vela, tra cui l’ultimo nato, il Safari. Un anno dopo tutta la produzione viene riunita in un unico cantiere nuovo di zecca, costruito ad hoc a Périgny. Questa volta sono le banche ad investire.
“Avevamo di fronte a noi una pompa che ci aspirava: era la domanda. Per soddisfarla avevamo una crescita esageratamente rapida, spiega James Léger. Ma il nostro cantiere, che sfornava un’ imbarcazione al giorno, batteva perfino gli Americani!”. Una catena di montaggio con le barche montate su invasature a rotelle, banchine che consentivano di lavorare a livello, sistemi di sollevamento, un bacino di prova...Michel ha creato uno strumento all’altezza delle sue ambizioni. Nel giro di cinque anni è diventato il più grande cantiere francese – e non si fermerà lì.
Nella sua vita non c’è posto che per la sua impresa. “La passione per il lavoro lo divorava. Mi diceva. Mi piacerebbe sposarmi, ma on potrei fare il padre di famiglia, non sono abbastanza disponibile!”, ricorda Francis Deschamps. Michel Dufour, uomo di grande sensibilità, dorme poco e si mantiene intellettualmente sempre attivo.
Malgrado il successo, questo scapolo vive come un asceta, un po’ come un monaco-soldato. “Quel che gli mancava era il desiderio di fare soldi, pensa Jean-Claude Sacré. Se ne infischiava, non era un uomo interessato ai piaceri.” Françoise Fouré e Bertrand Chéret aggiungono: ”il suo appartamento era vuoto. Nel salotto neanche un mobile, solo pacchi di riviste tecniche. I vestiti erano sistemati su grucce appese alle aste per le tende. Il letto era un materasso appoggiato per terra. Tutto qua.” Quando Michel Dufour acconsente ad andare ad Avoriaz con gli amici, passa tre giorni in abito completo e scarpe da città nella neve prima che una buon’anima gli consigli una tenuta più adatta...
Tuttavia, quest’uomo in apparenza fragile è diventato un imprenditore corteggiato. Crea impiego per decine di persone e traina tutto il settore. I fornitori di accessori nautici, come Goïot e Lewmar, non avevano mai venduto tanto. I salari lievitano. L’azienda è un rullo compressore. Michel Dufour prende rischi e continua a progredire, come un giocatore trascinato dall’entusiasmo, dall’euforia del successo.
Sortilège, Dufour 35, 27, 34, 31... i modelli si moltiplicano, la gamma si espande con alterne fortune. “Produrre non era tutto, occorreva vendere!” esclama James Léger. E il capo vi dedica tutte le sue energie. Un duplice credo per smerciare la produzione: fare attenzione alla qualità e sviluppare le esportazioni. Organizza una rete di agenti in tutta Europa e crea una filiale in Italia e negli Stati Uniti...È dall’America che doveva arrivare la salvezza. Ed è invece proprio là che cominceranno le prime difficoltà, con somme folli inghiottite per vendere barche in perdita...
Nel 1973 si apre il primo Grand Pavois [Gran Pavese, ndt], creato dai costruttori de La Rochelle da un’idea di Michel. Lo stesso anno la Michel Dufour S.p.A. riceve l’Oscar per l’esportazione. Ironia della sorte, questo riconoscimento coincide con l’aumento del prezzo del petrolio, innescando una crisi che metterà in pericolo il più grande cantiere europeo.
Di colpo la domanda crolla. Il cantiere ha lavoro solo per la metà delle 570 persone che impiega. Gli Stati Uniti, mercato promettente ma con un dollaro debole, non sono in grado di assorbire le imbarcazioni che l’Europa non può più permettersi. In un’azienda che ha conosciuto soltanto crescita le incertezze fanno nascere dei conflitti. I sindacati adottano una strategia di radicale rottura. Di fronte a ciò, il Presidente-Amm.Del. Michel Dufour si sente tradito nella fiducia che aveva loro riservato. “Quando aveva delle convinzioni le difendeva caparbiamente. Poteva essere brusco e mettere le persone al loro posto senza mezzi termini, spiega Francis Deschamps. D’altra parte, lo sentivo superato dai problemi, perdeva il contatto. Dal disegno della barca al marketing, faceva troppe cose, non poteva controllare tutto da solo.”
In un’intervista concessa nel 1975 alla nostra consorella Bateaux, Michel Dufour conferma questo giudizio. “Se dovessi ricominciare oggi, cercherei innanzi tutto di garantirmi la collaborazione di due elementi chiave. Uno sarebbe l’uomo dei numeri, che dovrebbe seguire l’andamento dell’impresa, l’altro un uomo di buon fiuto, che sapesse scegliere gli uomini...”
L’unico imprenditore a venire in soccorso di Michel Dufour è un uomo della sua stessa tempra. All’inizio del 1976 il barone Marcel Bich si porta garante di un prestito bancario volto a dare po’ d’ossigeno ad una società pesantemente indebitata. Qualche mese dopo ha la maggioranza. Il cantiere va profondamente riorganizzato e Michel Dufour deve abbandonare la sua azienda. Ha ancora stima per Bich, ma il ritiro è lacerante: “Era come un figlio per lui” dice James Léger.
Abbattuto, afflitto, Michel Dufour tenta ancora di disegnare delle barche nel suo studio con Jacques Delhumeau, ma dopo tre mesi difficili deve smettere. Per la rabbia, si isola e sceglie di fare il contrario di quello che aveva fatto sinora: l’agricoltura. Dopo due anni di esperimenti su dei terreni affittati nel Gers [regione Midi-Pirenei,ndt], acquista una proprietà di 70 ettari vicino a Jonzac [Charente Maritime, a nord di Bordeaux, ndt]. Lontano dall’ambiente del diporto, ecco un settore in cui può liberamente esprimere la sua creatività.
L’ingegnere sradica dei vigneti a Cognac per piantare 25.000 meli, attrezza ambienti a clima controllato per conservare la frutta, fa scavare un pozzo e mette in opera un sistema d’irrigazione goccia a goccia...Una determinazione metodica che sconvolge le abitudini. “È fantastico il contributo di quel tipo!” esclama il suo capotecnico in occasione di una conversazione con Bertrand Chéret. Al volante del suo camion Michel Dufour va a consegnare le sue mele al Carrefour di Bordeaux. Solitario, vive nella scomodità più totale, ma è una vita che gli piace. Purtroppo una serie di cattivi raccolti, di cali delle vendite e l’intransigenza della banca locale lo obbligano ad abbandonare.
È distrutto? No. Michel Dufour, indebitato fino al collo, sembra essere in una fusione permanente...
Dopo un passaggio presso Yachting France come consulente per la costruzione del Lacoste 42, eccolo a Rochefort. Nove anni dopo il ritiro è di nuovo nel settore delle barche! Assieme al suo compare Roger Mallard (il cui cantiere è sparito) vengono assoldati dalla Maxi Yachts International per concepire e mettere in piedi un nuovo cantiere destinato alla costruzione di barche a vela di lusso.
“Ingegnere ingegnoso”, come dice Jacques Marot, responsabile della falegnameria di quell’azienda (oggi cantiere CIM), Dufour dà ancora prova d’immaginazione inventando una navicella idraulica qua, degli meccanismi per rovesciare lo scafo là...
Questa avventura industriale si conclude dopo tre anni per dei dissapori ed un fallimento di cui non è responsabile!
Dopo questo, Michel Dufour aveva cancellato la barca dalla sua vita. Lo scorso febbraio, in compagnia di suo figlio Laurent, 19 anni, passa in macchina davanti ai cantieri Dufour. “Ah, tutto questo era nostro!” Laurent scopre la dimensione di un passato – sinonimo di insuccesso – di cui il padre non gli parlava mai spontaneamente. “Non ero fatto per essere un imprenditore, ma per essere un animatore”, gli diceva. Dopo il pensionamento, Michel Dufour si è appassionato al golf e al bridge con lo stesso sguardo non conformista e la stessa ossessione per il dettaglio che aveva durante gli anni lavorativi.
“La sua grande preoccupazione era di rimanere obiettivo, di studiare più attentamente possibile tutti gli aspetti di un problema prima di parlarne o di costruire qualcosa” dice Laurent. Aveva sistemato il suo appartamento cercando la luce migliore e poteva passare delle ore a contemplare un quadro di Frédérique Menguy. Speculava razionalmente in borsa sognando una residenza da favola in Spagna, perdendo alla fine un sacco di soldi. A forza di voler perfezionare la realtà con la sua logica da ingegnere. Ma Michel Dufour se ne rendeva conto? S’intrometteva in questioni delicate come l’utopia e l’arte...